L’importanza di una comunicazione autentica

La capacità di essere solo è un segno di maturità affettiva che si struttura gradatamente nell’adulto dall’esperienza infantile dello “stare solo in presenza della madre”, essendoci fra madre e figlio un legame affettivo sicuro (Winnicott, 1958).

La capacità di tollerare la solitudine va, dunque, di pari passo con la capacità di ricordare l’oggetto amato, di sperare che torni, di provare e accettare il dolore della sua assenza. E’ per questo che saper stare soli è stato assunto come uno dei due criteri di valutazione della maturità affettiva insieme a quello di saper instaurare legami profondi. L’essere umano non è un’individualità isolata, ma è costantemente in relazione: la persona è una rete di relazioni, di dialoghi, di rapporti, di scambi interpersonali con gli altri. Adler (1930) scrive: non esiste un intelletto privato. Un intelletto dell’individuo. L’intelletto ha un valore generale. Esso si è sviluppato comprendendo gli altri, avvicinandosi ai propri simili, immedesimandosi con loro, vedendo con i loro occhi, udendo con i loro orecchi, sentendo con i loro cuori. 

Ci vogliono due cervelli in interazione simbolica per avere una mente: a proposito di ciò Oliver Sacks descrisse casi clinici di alcuni suoi pazienti parkinsoniani che avevano difficoltà a camminare per tic, incespicamenti, acinesie asimmetriche, cadute. Se, però, qualcuno camminava con loro, questi tic, incespicamenti, acinesie asimmetriche, cadute scomparivano. Adler elabora il modello di una vita psichica costruita non solo sulla capacità del soggetto di concepire e pensare i propri pensieri (intrapsichico) sull’attitudine, parallela, dinamica e vitale, a osservare e a sentire intuitivamente, “come se” fossero i propri, gli stati mentali altrui (…) in virtù di un’intima natura intersoggettiva della mente (intersoggettivo). Per Adler è innegabile l’essenza dialogica della natura umana, in quanto l’entrare-in-rapporto-con l’altro da sé non rappresenta uno tra i possibili aspetti del vivere, ma la sua struttura portante. Se così non fosse, la persona cadrebbe vittima dei propri soliloqui, della propria logica privata e delle proprie finzioni rafforzate.

Ovvia importanza acquista la comunicazione intesa come l’essere in relazione con qualcuno: il comunicare come verbo intransitivo, e cioè il comunicare come partecipare, come con-dividere. La comunicazione intesa come relazione, e come partecipazione, è riscoperta dell’alterità e rifiuto della alienità. L’alter non è l’alienus, l’alienus è chi viene considerato, diverso da noi, chi è, o sembra essere, al di fuori della nostra comunità. La comunicazione autentica si realizza fino in fondo solo quando diviene relazione fra una soggettività e l’altra. L’incontro con l’altro da sé implica una sintonizzazione, un contatto, una risonanza emozionale, un sentire l’altro.

Ci si inoltra in una comunicazione autentica con se stessi e con gli altri lungo il sentiero della interiorità (della introspezione) e della immedesimazione; ma le cose cambiano nella misura in cui si abbia a che fare con la comunicazione razionale, o con quella emozionale. La comunicazione razionale è quella che ci mette in contatto, e in relazione, con i nostri pensieri e i nostri calcoli, e con i pensieri e i calcoli degli altri: con la dimensione de-emozionalizzata della realtà. La comunicazione razionale è quella che nelle scuole porta chi insegna a trasmettere cognizioni geometriche, e astratte, senza risonanze esistenziali profonde e indelebili.

Non è possibile analizzare un essere umano isolato dal suo contesto sociale: in ogni forma di comunicazione (e soprattutto in quella terapeutica) l’io si confronta con il tu nell’orizzonte di un noi che fonde (e trascende) l’io e il tu in una nuova dimensione dalla quale si esce cambiati, e non si è più quelli di prima. Ogni volta, allora, non c’è solo qualcuno che parla, comunicando qualcosa, e qualcuno che ascolta, che riceve qualcosa, ma c’è contemporaneamente, anche nel silenzio (si può comunicare con il silenzio e nel silenzio), un parlare e un ascoltare in una continua circolarità di esperienze.

Le segreterie telefoniche, i cellulari, internet, le nuove tecnologie e le nuove tendenze aprono la comunicazione verso orizzonti onnipotenti in quanto offrono l’illusione di annullare le leggi dello spazio e del tempo, mentre paradossalmente finiscono per imprigionare l’individuo in un mondo sempre più anonimamente artificiale a scapito della condivisione. Fingiamo di comunicare simultaneamente e contemporaneamente attraverso le nostre chat giornaliere, che saranno lette, in fretta, dai destinatari in tempi e contesti completamente sfasati e differenti e a cui seguiranno risposte cronologicamente e emozionalmente asincrone.

Le nuove forme di comunicazione tendono progressivamente a inaridire la vitale trepidazione emozionale, fatta d’incanto, di stupore e di meraviglia, che si sviluppa in ogni nuovo incontro, in ogni nuovo dialogo, in ogni conversazione, rarefacendo la magica sacralità unica e irripetibile dell’intreccio di anime e di corpi nell’hic et nunc, nel presente del presente in cui l’intuizione, è incontrastata sovrana (Ferrigno, 2007). Si comunica con il linguaggio delle parole, con quello del corpo vivente, e con quello del silenzio. Le parole sono creature viventi, e solo se nascono dal cuore riescono creare relazioni significative, e a comunicare cose dolorose e problematiche. Se vogliamo che siano portatrici di cura, non possono se non essere parole leggere e profonde, interiorizzate e calde di emozione, sincere e palpitanti di vita. Gli orizzonti di senso delle parole cambiano nel contesto dei diversi linguaggi del corpo vivente, e cioè della voce, degli sguardi, dei volti e dei gesti. E allora ci sono parole, parole emozionali (le sole che contano), che sono capaci di creare ponti di comunicazione fra noi e gli altri (fra chi cura e chi è curato) (Ferrigno, Borgna, 2012).

Solo chi è sceso in profondità nella propria solitudine è veramente capace di comunione con tutti, senza discriminazioni: solo chi è capace di solitudine è capace di comunione, e solo chi è capace di comunione può vivere una solitudine che non uccida. Se non si è arrivati a riconoscere e accettare la propria solitudine esistenziale, la ricerca della comunità e degli altri è fuga da se stessi; la solitudine (magari per dedicarsi alla preghiera) che rifiuta gli altri e la comunità non porta ad alcun incontro (neanche con Dio): è una solitudine che uccide (Guido, Motta, 2008).

In un incontro autentico, in una relazione nel segno della reciprocità, domina il Noi, da intendere non come somma dell’Io e del Tu, ma dell’Io, del Tu e del Tra. Per Buber (1923), l’Io autentico si costituisce unicamente rapportandosi con le altre persone giacché l’Io si fa Io solo nel Tu. Buber sottolinea come il porsi l’uno di fronte all’altro nella relazione Io-Tu sia un aspetto primario per cogliere non solo l’essenza della relazione umana, ma anche per comprendere, oltre agli altri, anche se stessi (Guido, Motta, 2008).

La comprensione da sola può non riuscire ad accorciare le distanze psicologiche fra le persone, che si sentono spesso e facilmente lontane fra loro: per giungere, o almeno per tendere, a ciò è necessario compartecipare e condividere gli stati d’animo ed il mondo interiore dell’altro (Bragaglia, 2011). È di fondamentale importanza creare una fusione di orizzonti, come la chiama Gadamer (1960), non si tratta, quindi, “soltanto” di comprensione. L’efficacia del dialogo è nella messa in atto di nuove possibilità che diventano vissute, senza distinzioni tra cognizione, emozione e corporeità; è il processo stesso dell’interazione a produrre nuove realtà (De Jaegher, Di Paolo, Gallagher, 2010). Nel dialogo autentico non ci sono un soggetto ed un oggetto, ma c’è l’incontro di due orizzonti, che si fonde in un orizzonte nuovo, costituito da un cambiamento di entrambi nel momento dell’interpretazione: si verifica un aumento di essere (Gadamer, 1960). Questo accade quando tra due persone si attua una creazione di significati, nell’atmosfera della comprensione (Barison, 1990). Quando si riesca a disporsi verso l’altro secondo queste direzioni di senso, si crea uno spazio nuovo tra le persone, uno spazio che potremmo definire “sacro”, nel senso che è separato da quello banale del mondo del “si” e della “chiacchera” (Heidegger, 1927), uno spazio in cui non valgono più i pregiudizi e le sicurezze con cui siamo, di solito, guardati e misurati, ma si realizza quel Mit-Sein, quell’essere insieme con l’altro (Armezzani, Chiari, 2015).