Il paradosso dell’esistenza

Se tento di afferrare questo io di cui sono certo,

se cerco di definirlo e compendiarlo, esso non

è più che acqua che scorre fra le mie dita (Albert Camus)

Forse a tutti noi è successo almeno una volta nella vita di svegliarci la mattina e di sentirci più morti che vivi. Un generale senso di annullamento e atemporalità ci accompagna al risveglio, alcune parti del nostro corpo sembrano non rispondere ai comandi quotidiani, la nostra mente sembra sdraiarsi a pancia in su sulla superficie del mare, mentre i nostri occhi desiderano guardare il nulla oltre il cielo. Ecco che questa esperienza può aiutare a comprendere, almeno minimamente, il vissuto di quelle persone che sperimentano la rara sindrome di Cotard.

«Era cambiato qualcosa di veramente essenziale: era mutata l’esperienza soggettiva che aveva di sé e del proprio mondo»

Chi soffre della sindrome di Cotard si trova davanti ad una esperienza di derealizzazione e depersonalizzazione, si prova un senso di generale ottundimento o appiattimento emotivo accompagnato da stati depressivi molto profondi, in cui le emozioni perdono tutta la loro forza. La depersonalizzazione infatti è un processo psicologico che priva il sé, il nostro essere, del suo vissuto emotivo rendendoci estranei a noi stessi. 

In questa evasione del sé si può arrivare alla convinzione che alcuni organi o parti del proprio corpo manchino o siano decomposti. L’impressione di essere dannati o condannati può essere talmente forte da convincersi di essere morti, fino a negare totalmente di esistere. 

Un delirio di negazione di questo tipo comporta una profonda alterazione nel senso del sé e del mondo e una quasi totale incapacità di ragionare su tale esperienza.

Il contenuto di tale delirio nichilistico può essere connesso alla biografia della persona e al contesto culturale in cui vive. Infatti il nostro sé è connesso al nostro corpo, alla nostra storia e al nostro ambiente sociale e culturale (cervello, corpo, mente, sé e società sono inestricabilmente connessi).

«Nella sindrome di Cotard c’è una sorta di enorme muraglia nera che va dalla Terra a Saturno. Ed è impossibile vedere oltre»

Chi soffre della sindrome di Cotard vive uno stato di profonda tristezza con la possibile presenza di forti sensi di colpa, una depressione difficile da immaginare. Può apparire rallentato e inespressivo, e l’inflessione emotiva nella sua voce è minima e il suo volto quasi inespressivo. Sembra come se ogni pensiero rappresentasse uno sforzo. 

Non si può essere più morti di un morto 

Indagando l’incidenza del suicidio tra le persone con sindrome di Cotard, psichiatri e psicologi ricercatori svelarono che le due circostanze raramente si sono dimostrate correlate. Arrivarono all’ipotesi che chi soffre di una depressione tanto estrema da non essere consapevole della propria esistenza potrebbe non essere in grado di agire, come un cervo abbagliato dai fari di un’automobile. Si può supporre dunque che persone che vivono la sindrome di Cotard non tentino il suicidio perché si sentono già morti.

Una questione filosofica 

A volte le persone con sindrome di Cotard affermano non solo di essere morti ma anche di non esistere affatto. L’idea delirante di non esistere solleva una questione filosofica. Sant’Agostino scrisse: «Che cos’è insomma il tempo? Lo so finché nessuno me lo chiede; non lo so più, se volessi spiegarlo a chi me lo chiede». Avrebbe potuto dire lo stesso a proposito del sé. Chiarire la natura del sé resta la sfida più grande. 

Potremmo tradurre il senso di sè nella sensazione di essere ancorati a un corpo, il nostro corpo, che possediamo e controlliamo, e dall’interno del quale percepiamo e scopriamo il mondo. È un senso di identità personale coerente che si estende nel tempo, dai remoti ricordi fino all’immaginato futuro. 

«Mi è successo qualcosa, non so cosa. Tutto ciò che ero in passato si è sgretolato ed è collassato, ed è emersa una creatura di cui non so nulla. Io non la conosco. […] Non è reale, non sono io… eppure lei è me, e poiché la mia vita è ancora nelle mie mani, pur nella follia, devo in qualche modo provvedere a me stessa.»  (L. Jefferson – These are My Sisters)

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