Accogliere il potere della solitudine
Che cosa significa conoscere e sperimentare il mio «nulla»? Non basta che mi distolga con disgusto dalle mie illusioni, colpe ed errori, che da essi mi separi come se non mi appartenessero e come se fossi diverso da quello che sono. Questo genere di annientamento di sé è soltanto una terribile illusione, una pretesa umiltà che nel dire «non sono nulla» intende in effetti affermare «vorrei essere diverso da quel che sono». Tutto questo può derivare da un’esperienza della nostra deficienza ed incapacità, ma non può produrre nessuna pace in noi. Per conoscere davvero il nostro «nulla» dobbiamo pure amarlo. E non possiamo amarlo se non vediamo che è buono. Non possiamo vedere che è buono se non lo accettiamo. Per amare il nostro nulla dobbiamo amare noi stessi (T. Merton)
Alcune persone vivono un disagio profondo: la paura di stare soli con se stessi e il timore di confrontarsi con la nudità e la verità del proprio io. Eppure la solitudine è inevitabile nella nostra esistenza, e nel momento in cui la respingiamo non facciamo altro che ostacolare la piena realizzazione del nostro percorso umano e spirituale, che diviene autentico quando impariamo a convivere in modo positivo anche con la solitudine. Ognuno di noi è un solitario, costretto dalle inesorabili limitazioni della propria solitudine. La morte ne è la prova, perché, quando l’uomo muore, muore solo (Merton, 1958).
L’esperienza della solitudine costituisce una parte integrante della vita, che ci piaccia o no la solitudine ci accompagna, a diversi livelli, lungo tutto l’arco della nostra esistenza. Essa ci segue non solo quando siamo soli con noi stessi, ma anche quando siamo immersi nella folla (ad esempio nei cosiddetti “non luoghi” come le stazioni, gli aeroporti, i centri commerciali, ecc.), e perfino quando ci muoviamo negli ambienti consueti della nostra quotidianità. Sia che incrociamo volti sconosciuti sia che intrecciamo rapporti interpersonali con chi abitualmente ci circonda, risulta impossibile eliminare del tutto l’esperienza della solitudine. La solitudine appartiene a tutti, anche a coloro che cercano di rifuggirla con ogni possibile distrazione (il pascaliano divertissement). Infatti, per la maggior parte delle persone la solitudine sembra essere un’esperienza talmente terrificante da indurli a fare di tutto pur di tutelarsene: è così che si struttura in loro un bisogno coatto che li porta ad evitare di sentirsi soli, cercando con ogni mezzo l’eliminazione dei tempi vuoti e la sospensione delle attività, individuando nuovi impegni, nuovi svaghi, continui contatti. Tale tendenza mira a ridurre il confronto con ciò che potremmo definire il “vuoto”, che viene vissuto come il nulla (l’horror vacui). Il terrore del vuoto, secondo alcuni studiosi, pare aver spinto l’uomo primitivo a riempire di figure le pareti delle caverne dove abitava: è così anche per l’uomo d’oggi, impregnato da una sensazione di terrore del vuoto, così intensa da indurlo ad una iperproduzione di eventi e di immagini, una caotica sovrastimolazione auditiva e visiva, un vero e proprio bombardamento, nell’unico intento di riempire e saturare tempo e spazio.
Questa filosofia del “tutto pieno” porta ad una voracità insaziabile, una situazione di desiderio senza confini, responsabile della scontentezza dell’individuo, a quel punto incapace di accontentarsi di ciò che ha raggiunto. A volte, la noia, il silenzio, il guardarsi intorno non programmato vengono consierati dei tabù e, spesso, come sintomi di disagio. Siamo, cioè, immersi in una cultura rivolta al fuori, all’attività, al fare, le cui conseguenze sono iperattività e mancanza di capacità di concentrazione. Come sapevano bene i latini la concentrazione nasce proprio dalla non attività, considerando l’otium il tempo delle scoperte più profonde ed il negotium quello dello scambio. L’introversione viene emarginata a favore di uno sviluppo continuo dell’estroversione e dei comportamenti organizzati che fanno crescere solo una parte della psiche, quella legata all’attività e alla socializzazione, e rattrappiscono quella orientata all’ascolto e alla ricerca. E la paura della solitudine è uno dei risultati dello sviluppo di questo modello culturale (Tarchini Del Grosso, 2008).
La cura è un processo di naturale crescita interiore, che nasce nel momento della profonda solitudine e dell’abbandono delle modalità correnti di adattamento al reale. Non sarebbe forse più opportuno cercare di scoprire gli aspetti positivi della solitudine, per situarli nel loro giusto piano di valore e in tal modo rendere accessibile e perseguibile all’uomo moderno un fenomeno così squisitamente umano? Non si dimentichi infatti che gli autentici innovatori del pensiero, delle scienze e delle arti sono stati quasi sempre grandi solitari. A noi del resto, più di questa solitudine creativa, di eccezione, interessa quella che è propria dell’uomo comune, e che implica raccoglimento in se stessi, sosta dall’affannoso tumultuare degli avvenimenti, introspezione ed elaborazione delle proprie esperienze di vita. (…) In un mondo in cui il richiamo del raggruppamento diviene sempre più imperioso e pressante e rischia di condurre ad una progressiva inesorabile spersonalizzazione di massa, indichiamo nella solitudine ben integrata l’unica possibilità di cui disponga l’uomo moderno per conservare le ultime vestigia della propria individualità (Callieri, Frighi, 1962).
Gli artisti di tutti i tempi hanno sempre sostenuto che per creare occorre solitudine, una solitudine intesa come stanza dell’anima, come opportunità, spazio per comprendere se stessi, i propri reali desideri. La Woolf (1929) parla di stanza tutta per sé, che è la metafora del diritto ad uno spazio in cui potersi immaginare donna tutta per sé. Negli stessi anni (…), Mansfield scrive: a me sembra che ciò cui aspiriamo è di lavorare con la nostra mente e la nostra anima insieme. E’ soltanto quando l’anima illumina la mente che quello che facciamo ha importanza. (…) E’ difficile, tremendamente difficile, da raggiungere. Per me l’unico modo per arrivarci è la solitudine.
Ciò che la solitudine rende, dunque, possibile è vivere in un silenzio capace di riconciliare le contraddizioni che sono in noi, in modo tale che, pur rimanendo in noi, cessino di essere un problema (Picard, 1951). Quando la solitudine era un problema, io non avevo solitudine. Quando ha cessato di essere un problema, mi sono accorto che la possedevo già e che potevo averla sempre posseduta. (…) La vita solitaria, essendo silenziosa, dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose. Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose (Merton, 1958).
In questo stato di silenzio interiore, viene sospeso il discorso dell’intelletto; tace il linguaggio affermativo dell’io; avviene una spoliazione di tutti gli investimenti e delle pretese; un ritiro dal mondo per tenere a distanza le sollecitazioni ambientali per difendersi dall’ovvio, dal banale, dal troppo e dall’inutile, in favore di un lasciar essere le cose e gli eventi (Tarchini Del Grosso, 2008).
Nella solitudine convergono presenze inquietanti, non ultima l’esperienza molto profonda e conturbante di trovarsi di fronte alla parte più misteriosa ed incomunicabile di noi stessi. Parte che, rendendoci unici ed irripetibili, ci separa dagli altri. E l’uomo sembra aver paura della propria unicità.
Noi ci allontaniamo dalle seduzioni del mondo in cerca di un nutrimento diverso e la solitudine diventa allora un luogo sacro, dove far vivere il nostro essere; la zona più segreta della nostra individualità, lo spazio della libertà, dove nascono e si alimentano, fin dall’infanzia, le energie creative; un luogo intimo dove prendersi cura di sé e dove è possibile inseguire la nostra voce più profonda: la nostra stanza dell’anima.
La solitudine può prendere questo carattere di una sosta, di un momento di quiete, di un intervallo di concentrazione. Darsi, consegnarsi, affidarsi completamente al silenzio di un vasto paesaggio di boschi e colline, o mare, o deserto: star fermo, mentre il sole sale sulla terra e ne colma di luce i silenzi. Pochi sono disposti a immergersi completamente in un tale silenzio, a lasciar che se ne impregnino le loro ossa, a respirare solo silenzio, a nutrirsi di silenzio e a mutare la sostanza della loro vita in un silenzio vivo e vigile. Dovrei essere capace di ritornare ogni volta nella solitudine come nel luogo che non ho mai descritto a nessuno, il luogo dove non ho mai condotto nessuno, il luogo il cui silenzio ha generato una vita interiore a nessun altri nota. Più mi addentro nella solitudine, più vedo con chiarezza la bontà di tutte le cose (Merton, 1958).
Se accolta come spazio fecondo di chiarificazione e di crescita, la solitudine ci può aiutare a non scivolare sul piano inclinato della superficialità e a resistere alla tentazione di lasciarci trascinare dalle correnti delle apparenze, delle illusioni, delle convenzioni e di quei rapporti effimeri e virtuali che ci portano a sfiorare gli altri e le cose più che a incontrarli. Solo così essa non costituirà un peso intollerabile, ma la soglia che ci introduce alla verità di noi stessi, la palestra intima e segreta nella quale allenarci per risanare le nostre ferite, per educare i nostri desideri, per purificare i nostri propositi al fine di prendere decisioni autentiche che ricadano positivamente su noi stessi e, di riflesso, sugli altri.